Casi resistenti o insuccessi terapeutici?
“Continuo a star male, nonostante io sia in cura da molti anni con specialisti diversi e altrettanto numerosi tipi di terapie farmacologiche e non farmacologiche”. Questa è la modalità con la quale alcuni pazienti si presentano ad una visita psichiatrica di consultazione, l’ennesima di una lunga serie: a loro dire hanno già provato tutti gli psicofarmaci in commercio senza trarne significativi benefici.
Il quesito che si pone quindi è se si è di fronte ad un paziente resistente/refrattario alle terapie oppure ad un paziente che semplicemente non ha ancora ricevuto cure ottimizzate. I casi resistenti propriamente detti (la frequenze cambia secondo il tipo di diagnosi) sono individuati come casi che hanno ricevuto dosi adeguate di terapia farmacologica appropriata per una durata sufficiente di tempo ma non hanno avuto una riduzione della sintomatologia di almeno 35-50%.
Per formulare questo tipo di valutazione gli elementi cardine sono molteplici: un inquadramento diagnostico nell’arco della vita, un’anamnesi farmacologica accurata (compatibilmente con la disponibilità di documentazione sanitaria) nonché una valutazione semeiologica e psicopatologica della attualità. Il rilievo di fattori ambientali e socio-culturali che possano contribuire al mantenimento del malessere sarà ugualmente importante.
Purtroppo solo raramente il paziente ha nella sua disponibilità misure oggettive alle quali fare riferimento circa l’andamento nel tempo del suo problema e della qualità della risposta ai farmaci. A complicare una valutazione obiettiva, dopo anni di assunzione di psicofarmaci vari, concorre il fatto che parte del malessere persistente sia ascrivibile proprio ad effetti secondari negativi dei farmaci.
In queste situazioni diventa indispensabile un periodo di osservazione nell’arco delle 24 ore, con una degenza quindi ospedaliera che consenta una rivalutazione del quadro clinico secondo parametri oggettivi e in un contesto nel quale siano minimizzati gli effetti ambientali e si possa attuare in condizioni sicure un wash out dei farmaci, come premessa per la formulazione di un piano terapeutico.
Ovviamente questo tipo di approccio che apparentemente risulta penalizzante (richiede tempo e uno scombussolamento della quotidianità non solo per il paziente ma anche per i suoi familiari), è di fatto l’unica possibilità realistica di “venire a capo” di situazioni cronicizzate nel malessere. Nella maggior parte dei casi il risultato di questo approccio porta di fatto a isolare la minoranza dei pazienti veramente resistenti e ad avviare gli altri a terapie efficaci.
L’utilità di queste “cliniche” riservate alla valutazione dei casi probabilmente resistenti è duplice: da una parte per la maggior parte dei pazienti che entrano con questa “etichetta” di casi resistenti alle terapie la valutazione approfondita consente di impostare un trattamento efficace. Dall’altra, per coloro che invece risultano resistenti sarà possibile focalizzare un percorso riabilitativo di reale potenziamento delle risorse residue. In entrambi i casi la raccolta di dati scientifici accurati e completi, pur non potendo dare nell’immediato risposte utili al singolo, costituisce la base per la ricerca futura.