Dopo il racconto dei disturbi che il paziente lamenta il medico deve rispondere alla domanda di rito: “Dottore, che cos’ho? Quale è la mia malattia?”.

Poter dare un nome al proprio malessere qualche volta è già di aiuto. Anche nel caso dei problemi psichiatrici i medici e gli psichiatri hanno a disposizione dei manuali di classificazione dei disturbi che consentono di denominare e classificare le sindromi che i pazienti raccontano. Vi è però una differenza sostanziale rispetto agli altri ambiti della medicina: alle diagnosi non corrispondono malattie con eziologie, cioè cause note.

In altre parole, la psichiatria non ha tenuto il passo dei progressi che, soprattutto negli ultimi 50 anni, la medicina ha fatto nella conoscenza delle cause delle malattie.

I disturbi psichici vengono quindi descritti appunto come sindromi, cioè come aggregati di sintomi e segni che evolvono insieme nel tempo in modo caratterizzante a farne “oggetti” con nomi e classificazioni alle quali però non corrispondono in modo biunivoco le cause che ne sono all’origine.

Le classificazioni nei decenni si sono aggiornate, modificate aggregando o al contrario disaggregando etichette diagnostiche (è questo il senso dei continui aggiornamenti ed edizioni successive dei principali Manuali DSM e ICD), ma a tutt’oggi la riflessione di molti ricercatori ha portato alla constatazione che questo stato di cose limita fortemente i risultati terapeutici che si ottengono in campo psichiatrico per la salute mentale delle persone.

A parità di diagnosi, cioè di sintomatologia, le peculiarità del cervello umano, la sua plasticità e le caratteristiche della dinamica di interazione tra ciò che viene ereditato e ciò che modula il funzionamento mentale, nel rapporto continuativo con l’ambiente esterno determinano differenze macroscopiche dell’effetto degli psicofarmaci da un paziente all’altro. Addirittura lo stesso farmaco può causare sonnolenza a qualcuno e ad altri uno stato di eccitazione.

Consapevoli di questi limiti, mentre le ricerche sulle alterazioni morfo-funzionali riscontrabili nei pazienti, sui possibili bio-markers delle diverse condizioni patologiche, i ricercatori sono orientati a cambiare radicalmente il paradigma di riferimento per la classificazione dei disturbi (e quindi dei pazienti).

Un progetto, ambizioso quanto innovativo in questo senso è portato avanti da alcuni anni del NIH statunitense: il Research Domain Criteria di fatto rappresenta una sorta di rivoluzione che a partire dalla classificazione dei costrutti che definiscono le funzioni cognitive (attenzione, memoria, controllo emotivo, funzioni esecutive etc) individua strumenti di misurazione ed elementi biologici (dalla genomica alla biologia) che possano costituire il profilo dei singoli pazienti e una loro riclassificazione potenzialmente più vicina ai fattori causali del malfunzionamento cognitivo e comportamentale.